È di questi giorni la notizia dell'interesse della Ferrero, la multinazionale italiana leader nel settore dolciario, a produrre nocciole nel Bellunese, ingrediente indispensabile per alcuni dei suoi più famosi prodotti, Nutella, ma non solo. Se l'ipotesi diventasse realtà, il nocciolo, scientificamente noto come “Corylus avellana L.”, potrebbe dare un contributo all’economia provinciale. Fa sorridere la descrizione che fa di questa pianta Mauro Corona nel suo libro “Le voci del bosco”: “il nocciolo quando lo vedi sottile, dritto, alto e ben vestito, ti dà l'idea del furbetto che non vuole fare nulla. Al pari di tutti i vili e fannulloni cerca la forza nel branco, perciò cresce assieme agli altri noccioli in numerose combriccole”. Un' “antipatia”, quella di Corona, dettata più dalla poca resa e utilità del suo legno rispetto ad altri. Effettivamente, come conferma qualcuno in Agordino, le piante di nocciolo rappresentavano un ingombro poiché si preferiva lasciare spazio ai prati destinati alla fienagione o ai terreni da coltivare. Così, i “busch”, erano destinati a trovarsi in zone più marginali ma pur sempre raggiungibili anche se la raccolta dei suoi frutti, le nocciole, si faceva, eccome. Sebbene non si praticasse la coltivazione vera e propria, si andavano a raccoglierle a fine estate, quando erano mature. Di questo offre un'ampia documentazione GioBatta Rossi nelle sue ricerche riferendo che “co le nosèle le avea el cul corent (o curent)”, quando erano mature si raccoglievano ai primi di settembre, “le porteane a casa desmalitàde”, si portavano a casa senza l'involucro che le avvolgeva e si mettevano sul ballatoio a seccare. “Via par l'invern se le magnea co se stea 'nte stua o apéde foch; se ghen dea anca ai tosàt che cantea San Martin, terzàde (mescolate) coi raf”. Del resto il riferimento alle nocciole è presente nella filastrocca cantata dai bambini la vigilia (10 novembre) di San Martino: “San Martin da le nosèle, demene tante, demele bele; demene pien en sachetìn, viva viva San Martin”. E i proverbi ? Non potevano mancare. Come quello di La Valle Agordina, “Se ’l piof el dì de Sant' Ana, la nosèla la cai do da la rama” (se piove il giorno di Sant' Anna, la nocciola si stacca dal ramo), o quello di Gosaldo “Da San Roch le nosèle le va de scròch e par i careghete l’é ora de far fagòt” (per San Rocco le nocciole si staccano dalle brattee e per i seggiolai è ora di far fagotto). Secondo il detto, poi, quando d'estate le nocciole sono in abbondanza, in inverno verrà molta neve. Nocciole a parte, anche il legno trovava un certo impiego seppure non paragonabile a quello di altre piante ad alto fusto, come abeti, larici, faggi e frassini. Le “bachéte de busch” erano, e lo sono tuttora, molto adatte a fungere da sostegno per le piante di fagiolo come pure per costruire e riparare i manici dei “darlìn” (gerle) o per fare “fassìn” da bruciare nel “fornèl”. E le foglie? Servivano come lettiera nelle stalle ma erano pure usate in qualche caso come “cerotto” improvvisato per medicare eventuali ferite quando ci si trovava all'aperto durante i lavori di fienagione. Curioso, infine, l'utilizzo delle infiorescenze, gialle e pendule, non a caso venivano chiamate “piroi”, messe per gioco sulle orecchie come fossero orecchini. Tutto ciò conferma come il nocciolo non sia affatto estraneo al nostro ambiente anche se, nella maggioranza dei casi, la crescita è stata del tutto spontanea.
L.Manfroi
L.Manfroi
Pubblicazione Riservata - "L'Amico del Popolo" - Settimanale di informazione generale della Provincia di belluno - marzo 2017
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