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A grande richiesta: "C'era una volta Collaz" (gennaio 2014)


Cencenighe – C'era una volta la frazione di Collaz. C'era, perché, pur esistendo ancora gli edifici, una decina in tutto, non è più stabilmente abitata. Eppure la frazione situata a 1031 metri sul livello del mare, su una balza naturale del versante del Pelsa, contò anche un centinaio di abitanti. Di fronte, al di là della valle attraversata dal Cordevole, le propaggini boscose più settentrionali del Monte Anime che gradualmente lascia posto al Piz Croce. Alle spalle la scarpata di “Pradét” e più in alto le pareti del Pelsa con la “Pena del sedèl”, lo spuntone di roccia che ricorda nella forma lo sgabello usato per mungere.
Documentato fin dal 1558 come area prativa, Collaz era il domicilio di alcuni ceppi familiari come quelli dei “Roci”, “Bodét”, “Nocol”, “Pate”. Gente abituata a convivere con la natura del luogo come tutti quelli delle frazioni alte, distanti dal centro come loro dediti ad attività legate all'agricoltura e all'allevamento i cui capifamiglia erano spesso emigranti stagionali. Non a caso gli abitanti di Collaz venivano indicati con l'appellativo di “Boemi”, nome che ricordava probabilmente quello della regione tedesca. Alle spalle delle case e dei “tabià”, parte il sentiero che porta all'ultima casa di Collaz, più decentrata rispetto alle altre e più in alto il casale di Bolp che fu dimora delle famiglia del “Totol”, l'area delle Mandre seguendo il quasi omonimo “troi de Col Mandro” verso “il bosch de Le Valone” solcato dalla “Val de le Bette” o “Val de confìn” che già nel nome fa intuire la demarcazione tra i due comuni contermini di Cencenighe e San Tomaso.
“Le Mandre” e la “Busa del Pit” erano zone di sfalcio e di pascolo. “ Il “Cason de le Mandre”, con “tabià e stala”, punto di approdo per coloro che d'estate provvedevano alla fienagione. Il bosco era la materia prima per la produzione di carbone nelle “ial”, gli spazi in cui si costruiva il “poiàt” ma anche un eccellente combustibile per il funzionamento delle “calchère”, le fornaci per ottenere la calce impiegata nella costruzione delle case. Più in su, a 2150 metri, la “Casèra del Gili”, Virgilio Soppelsa che della “casèra” aveva fatto un rifugio per la fienagione e la caccia. Questo era Collaz che una volta si raggiungeva dal capoluogo attraversando la “Val de Restèl”, salendo lungo la “Cea” lasciandosi alle spalle “Loranzón” e “Canèt” (i nomi con cui la gente effettivamente indica le frazioni di Lorenzón e Chenet), passando poi la mulattiera dei “Revers”, fatta negli anni della prima guerra mondiale, e quindi la “Val Granda”. Prima ancora veniva percorso il sentiero che all'altezza delle prima case di “Bastiegn”, passando per la località “El Cristo”, portava all'abitato. Solo nell'estate del 1980 Collaz è stato raggiunto dalla strada e ha visto l'arrivo delle automobili mentre nel 1982, per quattro anni, l'apertura di un piccolo bar. Punto di passaggio obbligato è sempre stata ogni caso la valle dove periodicamente, quando la neve sul Pelsa comincia ad essere tanta, scende la “levina de la fava” cui è legata un'omonima leggenda.
La levina de la fava si stacca dalle propaggini settentrionali del Pelsa, una sorta di imbuto che si forma tra le località “Casera del Gili” e “Costa de la vena”; da una biforcazione della valle, in alto, si immette anche quella del Valón. Con la “levina de la fava” i frazionisti hanno da sempre dovuto fare i conti non per la minaccia per le abitazioni (non lo è mai stata) quanto per l'intralcio e spesso l'isolamento che la valanga ha causato in occasione di nevicate importanti tanto che in più di un'occasione la colata di neve è scesa fino nel Cordevole. Ma i “Boemi” sapevano il fatto loro e armati di badili, “a piódech” e senza tante storie si scavavano il passaggio tra la neve come nel 1951 quando per l'altezza della neve si scavò una galleria in cui scendeva con la “loda” (slitta grande) la “sghidoléta” (slittino) e ispirò l'allora ventenne scultore Renato Soppelsa, che abitava proprio a Collaz, a realizzare una scultura di neve che poté resistere fino a primavera.
Questo era Collaz. Come quando si doveva scendere anche due volte al giorno per portare “el lat al casèlo”, non si poteva tergiversare o per andare a scuola la mattina, arrivando in classe con gli zoccoli di legno bagnati e mettendoli ad asciugare accanto “al fornèl” della scuola.
Un po' alla volta Collaz si è spopolato. Alcuni, per maggiore comodità hanno preferito scendere in paese, qualcun altro ha resistito finché ha potuto. Inevitabilmente ai residenti sono subentrati i proprietari delle seconde case che salgono dalla pianura per trascorrervi solo i periodi di vacanza.
Ora, quando la “levina de la fava”, precipita a valle imperturbabile e senza tante scuse occupando la strada, si scende da Collaz con l'elicottero dei Vigili del Fuoco come è accaduto il giorno dell'Epifania. Ma questa è un altra storia. Sono ormai lontani i tempi in cui i Roci, Bodet, Nocoi e Pate lavoravano “ a piódech” per farsi breccia tra la neve della “levina”.

                                                                                                Luisa Manfroi

"L'Amico del Popolo", gennaio 2014, giornale di informazione generale della provincia di Belluno - Riproduzione riservata


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