Cencenighe
– C'era una volta la frazione di Collaz. C'era, perché, pur
esistendo ancora gli edifici, una decina in tutto, non è più
stabilmente abitata. Eppure la frazione situata a 1031 metri sul
livello del mare, su una balza naturale del versante del Pelsa, contò
anche un centinaio di abitanti. Di fronte, al di là della valle
attraversata dal Cordevole, le propaggini boscose più settentrionali
del Monte Anime che gradualmente lascia posto al Piz Croce. Alle
spalle la scarpata di “Pradét” e più in alto le pareti del
Pelsa con la “Pena del sedèl”, lo spuntone di roccia che ricorda
nella forma lo sgabello usato per mungere.
Documentato
fin dal 1558 come area prativa, Collaz era il domicilio di alcuni
ceppi familiari come quelli dei “Roci”, “Bodét”, “Nocol”,
“Pate”. Gente abituata a convivere con la natura del luogo come
tutti quelli delle frazioni alte, distanti dal centro come loro
dediti ad attività legate all'agricoltura e all'allevamento i cui
capifamiglia erano spesso emigranti stagionali. Non a caso gli
abitanti di Collaz venivano indicati con l'appellativo di “Boemi”,
nome che ricordava probabilmente quello della regione tedesca. Alle
spalle delle case e dei “tabià”, parte il sentiero che porta
all'ultima casa di Collaz, più decentrata rispetto alle altre e più
in alto il casale di Bolp che fu dimora delle famiglia del “Totol”,
l'area delle Mandre seguendo il quasi omonimo “troi de Col Mandro”
verso “il bosch de Le Valone” solcato dalla “Val de le Bette”
o “Val de confìn” che già nel nome fa intuire la demarcazione
tra i due comuni contermini di Cencenighe e San Tomaso.
“Le
Mandre” e la “Busa del Pit” erano zone di sfalcio e di
pascolo. “ Il “Cason de le Mandre”, con “tabià e stala”,
punto di approdo per coloro che d'estate provvedevano alla
fienagione. Il bosco era la materia prima per la produzione di
carbone nelle “ial”, gli spazi in cui si costruiva il “poiàt”
ma anche un eccellente combustibile per il funzionamento delle
“calchère”, le fornaci per ottenere la calce impiegata nella
costruzione delle case. Più in su, a 2150 metri, la “Casèra del
Gili”, Virgilio Soppelsa che della “casèra” aveva fatto un
rifugio per la fienagione e la caccia. Questo era Collaz che una
volta si raggiungeva dal capoluogo attraversando la “Val de
Restèl”, salendo lungo la “Cea” lasciandosi alle spalle
“Loranzón” e “Canèt” (i nomi con
cui la gente effettivamente indica le frazioni di Lorenzón
e Chenet), passando poi la mulattiera dei “Revers”, fatta negli
anni della prima guerra mondiale, e quindi la “Val Granda”.
Prima ancora veniva percorso il sentiero che all'altezza delle prima
case di “Bastiegn”, passando per la località “El Cristo”,
portava all'abitato. Solo nell'estate del 1980 Collaz è stato
raggiunto dalla strada e ha visto l'arrivo delle automobili mentre
nel 1982, per quattro anni, l'apertura di un piccolo bar. Punto di
passaggio obbligato è sempre stata ogni caso la valle dove
periodicamente, quando la neve sul
Pelsa comincia ad essere tanta, scende la “levina de la
fava” cui è legata
un'omonima leggenda.
La
levina de la fava si stacca dalle propaggini settentrionali del
Pelsa, una sorta di imbuto che si forma tra le località “Casera
del Gili” e “Costa de la vena”; da una biforcazione
della valle, in alto, si immette anche quella del Valón.
Con la “levina de la fava” i frazionisti hanno da sempre dovuto
fare i conti non per la minaccia per le abitazioni (non lo è mai
stata) quanto per l'intralcio e spesso l'isolamento che la valanga
ha causato in occasione di nevicate importanti tanto che in più di
un'occasione la colata di neve è scesa fino nel Cordevole. Ma i
“Boemi” sapevano il fatto loro e armati di badili, “a piódech”
e senza tante storie si scavavano il passaggio tra la neve come nel
1951 quando per l'altezza della neve si scavò una galleria in cui
scendeva con la “loda” (slitta grande) la “sghidoléta”
(slittino) e ispirò l'allora ventenne scultore Renato Soppelsa, che
abitava proprio a Collaz, a realizzare una scultura di neve che poté
resistere fino a primavera.
Questo
era Collaz. Come quando si doveva scendere anche due volte al giorno
per portare “el lat al casèlo”, non si poteva tergiversare o per
andare a scuola la mattina, arrivando in classe con gli zoccoli di
legno bagnati e mettendoli ad asciugare accanto “al fornèl”
della scuola.
Un po'
alla volta Collaz si è spopolato. Alcuni, per maggiore comodità
hanno preferito scendere in paese, qualcun altro ha resistito finché
ha potuto. Inevitabilmente ai residenti sono subentrati i proprietari
delle seconde case che salgono dalla pianura per trascorrervi solo i
periodi di vacanza.
Ora,
quando la “levina de la fava”, precipita a valle imperturbabile e
senza tante scuse occupando la strada, si scende da Collaz con
l'elicottero dei Vigili del Fuoco come è accaduto il giorno
dell'Epifania. Ma questa è un altra storia. Sono ormai lontani i
tempi in cui i Roci, Bodet, Nocoi e Pate lavoravano “ a piódech”
per farsi breccia tra la neve della “levina”.
Luisa Manfroi
"L'Amico del Popolo", gennaio 2014, giornale di informazione generale della provincia di Belluno - Riproduzione riservata
"L'Amico del Popolo", gennaio 2014, giornale di informazione generale della provincia di Belluno - Riproduzione riservata
Commenti
Posta un commento